Single Malt Whisky
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Single Malt Whisky
Al palato i sapori di tè nero lasciano poi spazio a note speziate di cannella e coriandolo, unite a cacao e pepe bianco. Il finale è lungo e appagante dove emergono note di zenzero candito, chiodi di garofano, erbe tostate e sale marino.
Al naso sentori di vaniglia e mocha, accompagnati da note affumicate e di menta.
Questo whisky single malt viene prodotto in piccoli lotti, ed è il primo e unico whisky che invecchia nel luogo più basso della terra, il Mar Morto, dove le temperature raggiungono i 50°, conferendogli sapori forti e intensi. Qui l’angels’ share tocca il picco del 25% medio annuo.
Tutti i whisky di M&H invecchiano per almeno 3 anni, come da disciplinare scozzese. La maturazione in zone dalle elevate temperature, inoltre, permette di ottenere whisky dall inusuale pienezza nonostante il passaggio in botte non risulti essere prolungato: l’angels’ share, ovvero il liquido perso durante l’invecchiamento del whisky, si aggira intorno a una media del 12% annuo.
Servire in bicchiere da degustazione.
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Cose che non abbiamo ancora fatto con lo champagne:
berlo in una scarpetta tacco dodici, stappare la bottiglia con una spada da ussaro, sprecarlo sul podio di una qualsiasi gara motoristica, riempirci la vasca da bagno, chiamarlo spumante, cucinarci il brasato, dimenticarlo a casa di qualcuno, dimenticarlo in taxi, dimenticarlo.
Lo champagne è un’ottima cura per la memoria, non c’è coppa che non si riempia subito di ricordi, anche di ricordi che non avete mai avuto ma vi sarebbe piaciuto avere. Napoleone e Čechov non bevevano, se non un poco di champagne. Il primo per ricordarsi delle vittorie ancora da ottenere, il secondo per ricordarsi delle parole ancora mai scritte.
È il 1968 e lo scrittore Mario Soldati parte per un suo ‘viaggio in Italia’ incontro a vigneti e cantine, alla ricerca della verità del vino.
Ne uscirà un bel libro
Quel mondo è oggi cancellato ma di quel libro resta viva l’idea del vino come poesia che si gusta meglio, e si capisce davvero, soltanto quando si studia la vita, le altre opere, il carattere del poeta, quando si entra in confidenza con l’ambiente dove è nato, con la sua educazione, con il suo mondo.
È una frase molto citata, ma a volte non serve essere originali.
Per completarla si può dire che il vino non è che il verso di un poema più ampio che comprende terre, culture, popoli e persino poeti di molte parti del mondo.
Cercare la verità del vino – che abbia la dolcezza seduttiva di quelli liquorosi o la fresca giovinezza dei bianchi marini, il saldo carattere dei rossi pensosi o l’aromatica complessità dei vermouth – per offrirne la bellezza (con moderazione) ci sembra un compito meraviglioso.
Philip Marlowe è un investigatore tutt’altro che sentimentale, e quando sorride sembra un lupo. Almeno quando a interpretarlo è Humphrey Bogart. Le sue sono storie nere. Ma beve volentieri il ‘succhiello’ (Gimlet, per chi detesta i gialli), un cocktail fortificato dal gin e benedetto dalle note solari di cedro e lime. Questa è la nostra idea di mixability. Uno sciroppo non è uno sciroppo, ma è parte del tutto come avrebbe detto un maestro zen e il Paese delle Meraviglie
— quello dove la verbena, il bergamotto o il gelsomino, il lampone o la menta sono sapori liquidi —
per essere apprezzato dev’essere mescolato, inventato, dimenticato e inventato di nuovo. Questa era anche l’idea di Alice, una bar tender coi fiocchi.
Abbinare colori, abbinare amori, abbinare aromi, abbinare profumi, abbinare emozioni, abbinare eccezioni, abbinare temperature, abbinare temperamenti, abbinare impressioni, abbinare memorie, abbinare convenzioni, abbinare trasgressioni.
Sublimare e mescolare.
Certi liquori sono come il diario di un naturalista che si aggira la mattina nel suo orto botanico e spia la maturazione delle essenze, l’intensità delle fragranze, l’empatia degli effluvi. Sa che niente di quello che vede e apprezza domani sarà uguale e si sforza di fissare sul foglio il momento perfetto in cui un fiore e un arbusto sembrano fondersi in una sintesi toccante e per sempre nuova.
Rum rhum ron ron!
Sono le fusa di un gatto disteso sul cassero di teak del San Antonio, l’ultimo galeone di Capitan Kidd in rotta per Barbados. Se ne sta ben attento che l’ombra delle colubrine non gli tolgano il sole, ma provateci voi a dormire tranquilli mentre fioccano i proiettili, il mare si gonfia come un’acciuga che fa il pallone e i pirati urlano come diavoli.
Ci vorrebbe un buon sorso di rum che sappia di vaniglia e caramello o di biscotti al burro e frutta tropicale o spezie e legno dolce.
Basta aprire gli occhi e seguirci nelle nostre esplorazioni tra le isole e i secoli, a bordo di un’amaca.
Su, non fate i gatti.
Come in ogni mitologia la storia di tequila e mezcal inizia da una dea, Mayahuel, generosa e materna.
È lei a manifestarsi nelle forme dell’agave dalla polpa ricca d’acqua, che nel deserto diventa una manna biblica per gli assetati. I sacerdoti la facevano fermentare e la bevevano per parlare con gli dei più loquaci. Quando Hernán Cortés entrò in Messico nel 1519 e si accorse che il brandy portato dalla Spagna era finito, grazie ai suoi alambicchi trovò nell’agave una fonte abbondante per ritrovare il suo spirito.
Quattro secoli dopo e dopo anni di scorribande rivoluzionarie, nel 1914 a Città del Messico s’incontrarono Emiliano Zapata e Pancho Villa. Zapata veniva da sud, terra di mezcal, e Villa da nord, terra di tequila. Ma neppure Mayahuel riuscì a metterli d’accordo.
A noi restano una storia, la nostalgia della revolución e i magnifici doni dell’agave.
Il gin ha nel nome l’anima balsamica di una pianta officinale, il ginepro, e l’ombra alchemica di un jinn della tribù persiana dei folletti, naturali amici dell’uomo.
Per questo in ogni bottiglia sta al sicuro un vero ‘genio’, impaziente di tornare libero. Bevanda terapeutica nelle mani di Dioscoride, medico di Nerone, o dei dottori della Scuola salernitana, conforto di monaci ortolani e distillatori, lenimento alle epidemie medievali, coraggio dei cavalieri olandesi nella guerra dei trent’anni, il gin si è avventurato presto nel mondo, e noi nel mondo abbiamo inseguito le sue interpretazioni più segrete e meraviglianti.
Consolazione per lo ‘spirito’ dei marinai è la risorsa elettiva per i cocktail, tra tutti l’Hemingway Martini che del vermouth vuole solo uno sguardo. La proporzione di 15 parti (di gin) a 1 fu ispirata dal generale Montgomery cui piaceva bere bene e vincere facile (era quello per lui il giusto rapporto tra amici e nemici in battaglia).
non significa solo conoscere meglio Zosimo di Panopoli (leggendario inventore del primo alambicco) che Cicerone (sicuro autore di 58 orazioni), ma imparare un paesaggio dal colore del saké, riconoscere una musica nell’intensità della vodka o vedere i profumi di un secolo nelle sfumature dell’armagnac
Il silenzio favorisce la degustazione,
questa favorisce la parola, che favorisce la comprensione.
Non tutti gli ‘spiriti’, anche quelli che si comportano meglio, hanno un santo in paradiso, ma il whisky ce l’ha ed è San Patrizio, irlandese con origini scozzesi.
A distillare avrebbe imparato dagli arabi che però si erano fatti una cultura con gli alchimisti egizi e dunque a poco serve sventolar bandiere e primogeniture. Così, facendo rotta a oriente si possono scoprire ‘acque di vita’ sensazionali in Giappone dove fantastichiamo che la fioritura dei ciliegi in aprile sia un omaggio annuale a Torii Shingiro che proprio nell’aprile del 1929 commercializzò la prima bottiglia di whisky da lui prodotta.
E poi seguendo la ghirlanda brillante dei tesori liquidi si può fare tappa in Messico, in Tennessee o in Sudafrica e Argentina.